fallimento delle politiche di integrazione
anche se il titolo è di ispirazione politica, apro questa discussione in “psicologia clinica” perché propongo un argomento inerente la psicologia clinica e sociale:
cosa porta, dal punto di vista psicologico-sociale, un giovane immigrato di seconda generazione, i cui genitori sono immigrati in Occidente e a cui l’Occidente non ha fatto mancare nulla, a rincitrullirsi e partire in guerra per la causa dell’islam?
e quali sono i meccanismi che porta a fare ciò a un giovane occidentale?
Riferimento: fallimento delle politiche di integrazione
A parte il termine (irriverente ma inappropriato) "rincitrullirsi", la questione è interessante.
Mi fa venire in mente la storia di "Pastorale americana" di Philip Roth....il contesto è differente, ma la storia.....è incredibilmente simile.
Mi piacerebbe sentire più voci, secondo me può nascerne un bel confronto.
Grazie, Johnny
Riferimento: fallimento delle politiche di integrazione
ciao
io sono psicoterapeuta sistemica, e di mio lavoro tenendo in considerazione il contesto da cui proviene la persona :)
vedendo anche l'esperienza di alcuni pazienti immigrati di prima generazione, e di come si sono barcamenati in Italia, mi viene da fare questa osservazione: troppo spesso si scambia il benessere "in generale" dell'individuo con il benessere materiale ed economico...è una visione tutta occidentale-consumistica, che noi diffondiamo anche attraverso organi di informazione (Tv, media ecc) all'estero, nei confronti dei popoli che sperimentano un minore benessere :)
"avere tutto" non equivale alla serenità: di per sè, guardandola da un punto di vista psicologico, l'immigrazione è un trauma, uno strappo che segna la vita delle persone. Per gli uomini spesso è un progetto scelto attivamente, per le donne spesso è subito in quanto deciso da altri (marito, genitore, ecc)...e questo cambia molto la possibilità dell'immigrato di integrarsi: per un uomo straniero che sceglie volutamente di venire in Italia, ad esempio la perdita del lavoro o l'incappare in vicende avverse può rappresentare un fallimento personale ("ho scelto di venire qui...e ho fallito"), per una donna il rischio è di subire la scelta fatta dall'"uomo" di casa senza mai uscire da una vera e propria condizione di "lutto" (descritta anche in letteratura) per la perdita della propria terra, degli affetti ecc.
Tutto questo ricade, a pioggia, sui figli: o perchè a loro volta sono nati nel paese d'origine e come i genitori hanno subito "lo strappo" di essere catapultati nella realtà occidentale, o perchè ad esempio possono essere cresciuti con genitori che non hanno mai elaborato il lutto per l'allontanamento (voluto o meno...sempre di una separazione si tratta) dalla patria d'origine, e che magari ti descrivono in termini gloriosi la terra d'origine :dunno: ...considera anche che spesso gli immigrati di seconda generazione sono soggetti a traumi e difficoltà non sempre comprensibili: spesso subiscono l'allontanamento dei genitori, che vengono in Italia magari lasciandoli alle cure dei nonni o di altri parenti assortiti; poi ad un certo punto i genitori fanno il ricongiungimento famigliare, e questi adolescenti e bambini vengono strappati (un'altra volta) da chi si prendeva cura di loro e catapultati in una realtà completamente diversa, di cui non "comprendono" nulla (proprio in senso cognitivo, non solo emotivo), magari dovendosi adattare a genitori e famiglie che nel frattempo sono molto cambiati (o perché inaspriti dalle condizioni di vita molto dure che spesso sperimentano nel paese ospitante, o perchè costretti a lavorare di più e con più fatica che nel paese d'origine, o perchè nel frattempo sono nati altri figli che questi bambini letteralmente non conoscono)
inoltre considera che le politiche di integrazione spesso sono fallimentari...anche qui, torniamo al punto iniziale: un immigrato non è integrato se ha "solo" un buon lavoro, una casa ecc...integrazione significa scambio, commistione, possibilità di entrare in contatto con la cultura nel paese ospitante e al tempo stesso poter arricchire la cultura di questo paese con la mia :)
ho un paziente, immigrato di prima generazione, che di mestiere fa il "mediatore" tra i suoi connazionali in Italia e lo Stato Italiano: in pratica i suoi connazionali vanno da lui e gli danno la delega affinché lui sbrighi al loro posto qualunque pratica amministrativa e legale (dall'acquisto di una casa alle pratiche con la questura, ecc)...spesso si tratta di persone che non sanno nemmeno parlare l'italiano "di base"...è integrazione questa? e i figli di queste persone, che idea si faranno dell'Italia e della loro terra d'origine (da cui magari se ne sono andati troppo presto per sperimentarne le asprezze)?
insomma, è un discorso che come sempre è difficile da rendere efficace se fatto solo in astratto: bisogna scendere nella vita delle persone e conoscerne la storia personale, famigliare e dell'immigrazione vissuta per capire, ma soprattutto - almeno a parer mio - bisognerebbe levarsi dagli occhi il pregiudizio che "qui hanno tutto...cosa mai potrà spingerli a tornare indietro?" :)
a presto
Chiara