Ci mancherebbe di non dover sorridere. A me però fa poco sorridere pensare ad un paziente a cui vengono date continuamente stampelle e che viene lasciato nella posizione che ha sempre occupato. Sarà che su questioni di etica ci trovo poco da scherzare...
Quanto all'"ostinazione a credere che lavorare sulle logiche non implichi anche intervenire su ulteriori livelli strutturali" mi sembrava di essermi già spiegato chiaramente: considerando la prima cibernetica sorpassata, considerando gli apporti della biologia, dei sistemi dinamici non lineari, della teoria del caos, dell'embriologia, non è più sostenibile che il cambiamento di un componente del sistema generi un cambiamento "a cascata" sul sistema. Sono in gioco proprietà di resilienza e di etero-regolazione rispetto al sistema in interazione che rendono questa visione semplicistica. E quindi constestabile. Se poi non si coglie questa argomentazione - fatta peraltro dai teorici sistemici - è difficile vedere questo punto dolente che andrebbe chiarito.
Rispetto alla delucidazione che chiedi, in primo luogo mi permetto di farti notare come tu rimanga fortemente legata ad un linguaggio ed ad una concezione "comportamentista": non a caso parli di reazione a problematiche. Ovviamente ci può essere anche questo, ma ad un livello identitario inconscio mi riferisco più specificamente alla grande difficoltà di queste persone a potersi sentire autonomi, staccati, indipendenti. Come immaginerai chiaramente non mi riferisco all'incapacità di pensarsi autonomi cosciente (per cui basterebbe una prescrizione strategica ed il problema è risolto...), ma ad un sistema che non ha mai esperito la possibilità di autonomia, si è sempre vissuto come esistente-in-dipendenza-dall'altro, senza il quale scatta la sensazione di non-esistere. Esperienza che verrà quindi portata transferalmente nella relazione analitica, vissuta nella diade con l'analista, interpretata al fine di generare processi di trasformazione operati dal paziente nei confronti di tale struttura.
Saluti