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kegi7929
9 settembre - PSICOLOGIA CLINICA - VECCHIO ORDINAMENTO, A – Z (R.M. PANICCIA)
IL CASO DI L.
Entro la domanda vengono sempre agite, da parte di chi la pone, neo-emozioni, alla cui base si può ipotizzare la fantasia di possedere, quale emozione che regge la relazione con gli oggetti. Possedere e scambiare sono le due modalità con cui si può strutturare la relazione con la realtà: realtà confusa con le proprie fantasie nel possedere, riconosciuta come estraneo nello scambio produttivo. Entro il rapporto con chi è confuso con le proprie fantasie, il possesso si esprime quale intenzione di determinare il comportamento dell’altro, di condizionarlo; oppure, di essere guidati, orientati, condizionati dall’altro. Si tratta del potere dell’uno sull’altro, visto nelle due direzioni: di chi esercita il potere o di chi lo subisce, desiderandolo. La relazione di potere, d’altro canto, si scontra con l’impossibilità di realizzare la fantasia che lo sostanzia. Il potere dell’uno sull’altro pretende d’annullare i soggetti della reazione, ma questo annullamento, di sé o dell’altro, non è possibile. Si può costruire l’illusione di una sua realizzazione, ma lo smacco è sempre in agguato. Di qui il sentimento d’impotenza, che rappresenta l’altra faccia della fantasia di potere. Possedere l’altro o farsi possedere tramite il potere, sono modi per esorcizzare il sentimento d’impotenza, che sta alla base del mancato riconoscimento dell’estraneo. Senza l’estraneo, la sostituzione del mondo esterno con quello interno, l’agito confusivo delle proprie fantasie entro la realtà contestuale, conduce inevitabilmente all’impotenza. Questo è il motivo per cui abbiamo definito, quale obiettivo dell’analisi della domanda e più in generale dell’intervento psicologico clinico, lo sviluppo. Senza il riconoscimento dell’estraneo, che comporta l’impegno produttivo entro la relazione contestuale, si ricade inevitabilmente entro l’emozione d’impotenza.
A volte la domanda rivolta allo psicologo ha, quale sua finalità, l’imbrigliare anche lo psicologo entro la rete dell’impotenza. Vediamone un esempio, nel caso resocontato da una collega durante un lavoro di formazione.
Il giovane uomo depresso. L., un giovane uomo di 26 anni, telefona ad una psicologa e prende un appuntamento, ma il giorno convenuto non si presenta, né in seguito dà più notizie di sé. Passato un mese, citofona allo studio della psicologa, insistendo per incontrarla subito, spiegarle il suo problema e iniziare una psicoterapia. La psicologa propone invece che ritelefoni, per fissare un appuntamento. Quando si incontrano per il primo colloquio, L. dice che il suo problema dura da 9 anni, che è stanco di soffrire, che ha già provato di tutto: psichiatri, psicologi, psicoterapie, ha cambiato un sacco di farmaci; da circa due mesi è seguito da uno psichiatra, che gli ha consigliato di parlare con uno psicologo. Lui è stato d’accordo, perché con i soli farmaci sta peggiorando. Sospira: “Nessuno può aiutarmi…”. Dice che è esasperato dal suo malessere, che si acuisce sempre più. Non riesce a riprendere il lavoro: “Non riesco a capire il motivo di questo blocco, del mio rifiuto, rischio di perdere lo stipendio.”. “La mia depressione è iniziata quando avevo 17 anni, mi si appannava la vista, ero angosciato di tutto, non avevo voglia di uscire. Ho iniziato a lavorare, ma si può dire che in media ci andavo tre, quattro mesi all’anno, tra malattie e permessi vari”. “Sono patito di macchine e motociclette, andavo a lavorare soprattutto per questo, adesso sono sempre più angosciato all’idea di poter perdere il lavoro”. “Ho una ragazza, ma non la amo”. Ha un gruppetto di amici, di cui lui è il leader, “perché con loro mi faccio forte e mostro un altro volto…non sanno che soffro di depressione”. In famiglia i genitori lo comprendono: non è così per il fratello maggiore, che: “Dice che sono un fannullone e ne approfitto perché a casa non fanno storie”. Ultimamente si sente un po’ meglio con i farmaci che gli prescrive lo psichiatra, “Ma lui è troppo impegnato, io ho bisogno che qualcuno mi segua da vicino”.
Ecco una persona che vive nell’illusione dell’onnipotenza (“nessuno mi può aiutare”), fondata sulla convinzione di poter rendere impotente chi si prova, o riesce a costringere, nel compito dell’aiuto. Chiede aiuto, ma con l’obiettivo esplicito di far fallire chi s’impegna nell’impresa. La persona presenta, se si guarda al suo caso dal punto di vista psichiatrico, o se si vuole diagnostico, chiari tratti psicotici.
Guardando alla dinamica della domanda, emergono altri aspetti. In particolare, due aree problematiche importanti: il rapporto con la psicologa - motivato dallo star male, dalla depressione, dai contatti con la psichiatria e con i farmaci - e il lavoro. In quest’ultima area, L. ha provato ad imporre la sua onnipotenza (andava a lavorare tre o quattro mesi l’anno), ma ora che non riesce nemmeno ad avvicinare il luogo del lavoro, teme di perdere il posto. Al lavoro, in altri termini, sente di aver a che fare con un limite all’onnipotenza, con una risposta di realtà alla sua pretesa di rendere impotente chiunque: il licenziamento.
Anche la psicologa ha iniziato la relazione con questa persona richiamandola alla realtà, con la richiesta di un appuntamento; sconfermando la pretesa onnipotente che lei sia a sua totale disposizione. Ora avrà due possibili modalità di conduzione dell’analisi della domanda: interessarsi alla storia clinica dell’uomo, al suo malessere, alla sua angoscia, alla sua vista appannata, ai suoi miglioramenti e peggioramenti; oppure, e qui la contrapposizione è chiara, potrà affrontare il problema del lavoro, delle fantasie che lo alimentano. Dichiarando di investire sulla condizione lavorativa, quale unico rapporto che L. vive con la realtà. Sconfermare l’attesa che ci si occupi di lui come malato, indicare nel rapporto con il lavoro l’ancoraggio di un possibile percorso psicoterapeutico, propone ad L. una scelta iniziale rilevante. Scelta che concerne le due aree della domanda prima evocate: l’istituirsi di una cronicità di malato (si badi: non tutta interna a un processo individuale di deterioramento mentale, ma come modo di adattamento sociale), oppure l’investire su una qualche forma di produttività e di scambio, che la psicoterapia potrà proporsi di individuare e costruire. Malattia come modo di adattamento sociale, dicevamo; L. infatti propone diverse situazioni di vita ove come malato ha avuto risposta alle sue pretese: in primo luogo la famiglia, ma anche il lavoro, sino ad oggi. In tutti questi contesti, d’altro canto (includiamo anche la ragazza e gli amici) l’equilibrio è critico, c’è un tempo che scorre, situazioni che mutano: i genitori invecchiano, i gruppi adolescenziali hanno, anche in un’illusione di eterna giovinezza, fine. Si potrà, con L., valutare quali cambiamenti problematici prevede, o ha già constatato, oltre all’evento critico “lavoro”.
Nell’analisi della domanda, anche in questo caso, in cui la componente psicotica appare evidente, sulla posizione diagnostica prevale l’accordo sugli obiettivi di lavoro, o la chiusura del rapporto in base a una valutazione di inopportunità, da parte di chi pone la domanda, sul perseguirli. Nel caso di L., la psicologa, se riuscirà nell’impresa di convenire con lui obiettivi di sviluppo, cosa probabilmente difficile vista la lunga carriera d’onnipotenza di L. e i successi ottenuti nel campo, potrà impegnarsi con lui nella difesa dell’estraneità della situazione lavorativa e del potere della competenza, dalla dinamica onnipotenza-impotenza.
Qualche nota sul modo in cui è stato affrontato il compito. La provocatorietà di L. ha suscitato molta irritazione e prodotto prediche (controllo impotente!): non si impegna, non ha volontà di guarire, non si prende responsabilità; bisogna farlo ragionare, è necessario che comprenda, si deve portarlo a riflettere. Ma è stato anche capito che c’è una strategia relazionale, bisogno di controllo, sfida, provocazione, pretese. Si è cercato l’evento critico; e qui, problematicamente, pochi hanno colto la rilevanza che il lavoro assume nel caso, come leva per concordare un possibile obiettivo nella psicoterapia, o come test per constatare l’impossibilità di un accordo. Lo sforzo di fare ipotesi – comunque molto utile – spesso è andato in altre direzioni, dalla provocatorietà della passività dei genitori, alla possibile rottura di un equilibrio familiare perverso attraverso la posizione polemica del fratello, al senso dei 17 anni come svolta critica nella vita. Si è capito, più di una volta, che il setting ha, nel caso in esame, caratterizzato da una tendenza ad agire molto elevata, particolare rilevanza. In qualche caso, si è colto che sarà molto importante convenire con L. se è il caso di affrontare, e perché, una psicoterapia; sconfermando l’attesa che in nome dell’urgenza e della sofferenza la cosa non vada nemmeno discussa.