Cara Chanel n° 5,
non riesco a seguirti nella distinzione che fai fra vita reale e l’irrealtà dell’analisi; quella analitica è una relazione reale come tutte le altre, con delle sue caratteristiche precise dettate dallo scopo per cui si instaura quella relazione, dalle teorie implicite ed esplicite del partecipanti, dalle aspettative reciproche, dal ruolo dell’inconscio di ciascuno di loro in risonanza all’inconscio e all’impatto globale dell’altro, dall’evoluzione di questi eventi e dalla capacità della coppia di costruire questa relazione e di comprenderla.
Ti dirò di più, è una relazione d’amore, ma di una forma particolare d’amore che non è quello fra due partner (perché è asessuato, perché può avvenire fra persone dello stesso sesso entrambe eterosessuali, perché è circoscritta ad un setting più o meno rigido, ecc.), né quello fra genitore e figlio, o fra fratelli. Ma se non ci fosse amore, forse il più potente motore psicologico, non ci sarebbe cambiamento, non ci sarebbe spostamento ... perché un paziente dovrebbe cambiare, infatti? Per la potenza e la pregnanza delle interpretazioni? Io credo che un paziente cambi fondamentalmente (ma è un’idea mia, dunque un’opinione personale) per amore del suo terapeuta; e un terapeuta riesce ad essere vicino al suo paziente solo per amore di quest’ultimo, non perché ha capito il meccanismo occulto del suo funzionamento, non per empatia, non perché adotta la tecnica più efficace in quel momento, non perché favorisce la mentalizzazione, o perché lo contiene, o perché lo ripara, o perché gli fa da oggetto-Sè o da madre sufficientemente buona e nemmeno perché gli facilita la funzione alfa. Un paziente si accosta a se stesso, riesce ad essere presente a se stesso, a divenire ciò che è, a riappropriarsi di sé e riaprire la sua dialettica interna creando le fondamenta per nuovi processi psichici solo per amore del suo terapeuta.
Questo lo sapevano bene gli antichi greci che avevano istituito un processo educativo basato sull’amore fra un adulto (erastés) e un ragazzo (eromenos), processo che chiamavano askesis, all’interno del modello educativo denominato paideia. Un modello che l’avvento del cristianesimo (avverso all’amore omosessuale e fra adulti e bambini) ha modificato eliminandone accuratamente e chirurgicamente la componente sessuale.
Per quanto mi riguarda, ritengo che in analisi sia importante vivere e comprendere chi vive e cosa sta vivendo, fuori dall’analisi possiamo illuderci che conoscere chi siamo e interrogarci sull’esperienza che stiamo vivendo non sia poi così importante, possiamo accontentarci di mezze verità, possiamo pure prenderci in giro ... anche per tutta la vita, se è necessario, sarà dura ma non impossibile. In fondo quando Freud parla di rimozione, di negazione, di forclusione di denegazione ... quando si parla di scissione, ecc. non si sta parlando altro che dei molteplici modi conosciuti dagli umani per ingannarsi. Ingannarsi al prezzo di precludersi parti di sé, della propria esperienza, di rinunciare a delle possibilità, a delle inclinazioni, a dei talenti.
L’analisi come rifugio? Si, può succedere, ma bisognerebbe interrogarsi se è davvero analisi in tal caso. L’analisi è uno dei rapporti più inquietanti che esistano, perché mette ciascuno in contatto con i propri fantasmi, con ciò che di noi non vogliamo sapere, ma che non possiamo abbandonare perché è nostro. Per Bion in analisi dovrebbero esserci due persone molto spaventate; con questo non voglio fare terrorismo, ma ricordarti che quello analitico è un percorso inquietante, non una passeggiata nel bosco.
In quanto terapeuta di coppia, io avrei accolto con entusiasmo la frase dell’ “astante” di amare la moglie così com’è, è il coronamento di tutto il mio lavoro con la coppia, non avrei avuto nessun imbarazzo nell’ascoltarla e nel valorizzarla ... mi pare strano che questo abbia potuto creare problemi a dei colleghi che lavorano con le coppie.
“Prima di andare in analisi stavo benissimo?” ... mmmmmhh....
Un saluto