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  1. #1
    Johnny
    Ospite non registrato

    fallimento delle politiche di integrazione

    anche se il titolo è di ispirazione politica, apro questa discussione in “psicologia clinica” perché propongo un argomento inerente la psicologia clinica e sociale:

    cosa porta, dal punto di vista psicologico-sociale, un giovane immigrato di seconda generazione, i cui genitori sono immigrati in Occidente e a cui l’Occidente non ha fatto mancare nulla, a rincitrullirsi e partire in guerra per la causa dell’islam?
    e quali sono i meccanismi che porta a fare ciò a un giovane occidentale?

  2. #2
    Postatore Epico L'avatar di Morgana-z
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    nella terra in cui lo scirocco scompiglia i capelli e arruffa i pensieri
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    Riferimento: fallimento delle politiche di integrazione

    A parte il termine (irriverente ma inappropriato) "rincitrullirsi", la questione è interessante.

    Mi fa venire in mente la storia di "Pastorale americana" di Philip Roth....il contesto è differente, ma la storia.....è incredibilmente simile.
    Mi piacerebbe sentire più voci, secondo me può nascerne un bel confronto.
    Grazie, Johnny
    Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi era entrato.
    (Haruki Murakami)

  3. #3
    Postatore Compulsivo L'avatar di arwen
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    Riferimento: fallimento delle politiche di integrazione

    ciao
    io sono psicoterapeuta sistemica, e di mio lavoro tenendo in considerazione il contesto da cui proviene la persona

    vedendo anche l'esperienza di alcuni pazienti immigrati di prima generazione, e di come si sono barcamenati in Italia, mi viene da fare questa osservazione: troppo spesso si scambia il benessere "in generale" dell'individuo con il benessere materiale ed economico...è una visione tutta occidentale-consumistica, che noi diffondiamo anche attraverso organi di informazione (Tv, media ecc) all'estero, nei confronti dei popoli che sperimentano un minore benessere
    "avere tutto" non equivale alla serenità: di per sè, guardandola da un punto di vista psicologico, l'immigrazione è un trauma, uno strappo che segna la vita delle persone. Per gli uomini spesso è un progetto scelto attivamente, per le donne spesso è subito in quanto deciso da altri (marito, genitore, ecc)...e questo cambia molto la possibilità dell'immigrato di integrarsi: per un uomo straniero che sceglie volutamente di venire in Italia, ad esempio la perdita del lavoro o l'incappare in vicende avverse può rappresentare un fallimento personale ("ho scelto di venire qui...e ho fallito"), per una donna il rischio è di subire la scelta fatta dall'"uomo" di casa senza mai uscire da una vera e propria condizione di "lutto" (descritta anche in letteratura) per la perdita della propria terra, degli affetti ecc.

    Tutto questo ricade, a pioggia, sui figli: o perchè a loro volta sono nati nel paese d'origine e come i genitori hanno subito "lo strappo" di essere catapultati nella realtà occidentale, o perchè ad esempio possono essere cresciuti con genitori che non hanno mai elaborato il lutto per l'allontanamento (voluto o meno...sempre di una separazione si tratta) dalla patria d'origine, e che magari ti descrivono in termini gloriosi la terra d'origine ...considera anche che spesso gli immigrati di seconda generazione sono soggetti a traumi e difficoltà non sempre comprensibili: spesso subiscono l'allontanamento dei genitori, che vengono in Italia magari lasciandoli alle cure dei nonni o di altri parenti assortiti; poi ad un certo punto i genitori fanno il ricongiungimento famigliare, e questi adolescenti e bambini vengono strappati (un'altra volta) da chi si prendeva cura di loro e catapultati in una realtà completamente diversa, di cui non "comprendono" nulla (proprio in senso cognitivo, non solo emotivo), magari dovendosi adattare a genitori e famiglie che nel frattempo sono molto cambiati (o perché inaspriti dalle condizioni di vita molto dure che spesso sperimentano nel paese ospitante, o perchè costretti a lavorare di più e con più fatica che nel paese d'origine, o perchè nel frattempo sono nati altri figli che questi bambini letteralmente non conoscono)

    inoltre considera che le politiche di integrazione spesso sono fallimentari...anche qui, torniamo al punto iniziale: un immigrato non è integrato se ha "solo" un buon lavoro, una casa ecc...integrazione significa scambio, commistione, possibilità di entrare in contatto con la cultura nel paese ospitante e al tempo stesso poter arricchire la cultura di questo paese con la mia
    ho un paziente, immigrato di prima generazione, che di mestiere fa il "mediatore" tra i suoi connazionali in Italia e lo Stato Italiano: in pratica i suoi connazionali vanno da lui e gli danno la delega affinché lui sbrighi al loro posto qualunque pratica amministrativa e legale (dall'acquisto di una casa alle pratiche con la questura, ecc)...spesso si tratta di persone che non sanno nemmeno parlare l'italiano "di base"...è integrazione questa? e i figli di queste persone, che idea si faranno dell'Italia e della loro terra d'origine (da cui magari se ne sono andati troppo presto per sperimentarne le asprezze)?

    insomma, è un discorso che come sempre è difficile da rendere efficace se fatto solo in astratto: bisogna scendere nella vita delle persone e conoscerne la storia personale, famigliare e dell'immigrazione vissuta per capire, ma soprattutto - almeno a parer mio - bisognerebbe levarsi dagli occhi il pregiudizio che "qui hanno tutto...cosa mai potrà spingerli a tornare indietro?"

    a presto
    Chiara
    Dott.ssa Chiara Facchetti
    Ordine Psicologi della Lombardia n.12625


    Io credo che le pietre respirino. Non possiamo percepirlo con le nostre brevi vite.

    Siamo tutti nella fogna, ma alcuni di noi guardano alle stelle (Oscar Wilde)

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