Voglio porre un quesito molto importante che mi si è posto ad un certo punto del percorso terapeutico.
Se ad un certo punto della terapia ci sono delle forti resistenze , si entra in una fase di stallo, può capitare che il paziente non riesce ad affrontare tranquillamente gli argomenti cruciali in terapia e se lo fa lo fa in modo automatico, meccanico, con distacco, almeno questo è quanto è accaduto a me.Ci si sente inchiodati in questo impasse e questo stallo e non c'è azione, non si procede.Quasi il problema sembra scomparire o se a tratti affiora e se ne sente la portata abissale si ha difficoltà a parlarne e a portalo in terapia per davvero, standoci "dentro".
Quello che mi chiedo è questo:
- E' possibile che in questa fase il paziente sposta l'attenzione degli argomenti o sente il bisogno di parlare molto ma di altro?Per parlare di altro intendo parlare molto, molto più di come si è fatto nella fasi precedenti la terapia magari dei problemi che si ha ma senza l'aggressione o la fretta dell'analisi?
E' possibile avere bisogno di un setting terapeutico più "leggero" e meno centrato sui problemi? il terapeuta può cogliere questo bisogno del paziente come resistenza legittima e non forzare la mano oppure forzarla poco alla volta, ogni tanto, per non paralizzare il paziente?E se la forzatura in realtà non esiste ma è solo una percezione errata del paziente?
forse è difficile stabilirlo da qui, bisognerebbe vedere il caso singolo e specifico.
Se il terapeuta ad un certo punto,prende egli stesso le distanze dal paziente e il paziente si sente abbandonato e tradito?
Come fare a capire se il terapeuta ha saputo RISPETTARE i giusti tempi del paziente ?o se è colpa del paziente che aveva resistenze troppe alte?
Può essere il terapeuta concausa dell'impasse e del fallimento della terapia?
So che è una quesito complicato..ma mi piacerebbe discuterne ampiamente con voi.
Grazie a chiunque sia disponibile al confronto.