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  1. #46
    Partecipante Esperto L'avatar di Santiago
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    Dialogare con altri modelli senza per questo perdere la propria "identità" mi sembra la giusta via. Tuttavia il dialogo non è sempre possibile: non parliamo tutti la stessa lingua nella nostra disciplina.
    Forse è utile appianare le differenze in un contesto pubblico per non dare l'immagine di frammentazione reale in cui siamo immersi e di cui, nel suo piccolo, questo forum ne è la riprova: solo in questo modo possiamo evitare che muoia un moribondo.
    D'altra parte mi auguro - mettendomi nella prospettiva del paziente - che tale disomegeneità, indice certo di complessità e promotrice di creatività in fermento, sia una fase della psicologia e che possa ridursi complessificandosi per dare un'immagine "reale", seriamente più unitaria.
    O, a mio parere, la torre di Babele sarà destinata a crollare e verremo considerati dai posteri riedizioni aggiornate di maghi e stregoni.
    La scienza è anzittutto consensualità tra gli scienziati.

    Santiago
    Ultima modifica di Santiago : 20-07-2007 alle ore 15.00.19
    "Soltanto i pesci non sanno che è acqua quella in cui nuotano, così gli uomini sono incapaci di vedere i sistemi di relazione che li sostengono" L. Hoffmann

  2. #47
    ninfaverde
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    La scienza è anche possibilità di controllare..Attraverso il controllo poi si può confutare una teoria.

  3. #48
    Partecipante Leggendario L'avatar di gieko
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    Originariamente postato da ninfaverde
    Io vorrei porre una domanda, perchè constato che siete tutte persone con più esperienza di me e posso arricchirmi grazie alle vostre discussioni: la psicoanalisi con quale tipo di paziente o sintomo non va a colludere? Abbiamo parlato della personalità fobica e della predisposizione del setting peculiare all'approccio cognitivo a toccare il sintomo e non intervenire sulla struttura di personalità. La psicoanalisi può sopperire a questa eventuale mancanza ed in quale modo? E soprattutto chiedo: cosa intendete esattamente per approccio psicoanalitico e differenziazione dalla tecnica? La tecnica psicoanalitica è così disgiunta dalla teoria o dovrebbe riflettere congruentemente una teoria?
    Belle domande...
    Dal punto di vista teorico la psicoanalisi (ma credo anche gli altri orientamenti) non è specifica per delle tipologie di pazienti, ma per tutti. La teoria serve proprio a questo: avere una visione generale ed unificata dell'essere umano, del suo funzionamento, della sua patologia. Non penso che sia giusto usare teorie diverse per diverse forme di patologia (tipo: la fobia è spiegata meglio dal comportamentismo, la perversione dalla psicoanalisi...) nè tantomeno approcci eclettici che cambino in base al paziente (col fobico uso la terapia comportamentale, col perverso la psicoanalisi...). Una teoria è "buona" se è spiegativa di un ampia gamma di fenomeni e di dati.
    Da questo livello ci si muove alla teoria della tecnica (o metodologia) cioè all'insieme di elementi che, data una determinata teoria, rappresentano il campo di osservazione e cambiamento. Ad es., se rimaniamo nell'ambito della teoria freudiana pulsionale, semplificando, possiamo dire che il metodo consisterà nell'osservare le difese ed interpretarle.
    A questo punto necessitiamo della tecnica vera e propria, che è la parte più variabile: infatti qui è necessario cercare di operare con il paziente affinchè si utilizzino strumenti adatti.
    Come vedi c'è un legame strettissimo tra questi elementi, ma non possono essere mischiati se no si cade nella confusione epistemica e nell'assurdo epistemico per cui la tecnica fa la teoria.

    Per il resto il fenomeno di collusione è sempre presente, ed è, secondo me, essenziale per il procedere della terapia quanto viene letto o interpretato.
    gieko

  4. #49
    Partecipante Leggendario L'avatar di gieko
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    Re: Re: Re: Re: omosessualità: i terapeuti

    Originariamente postato da riversky
    Credo che approvazione e disgusto siano inscindibili dal nostro modo di esprimerci. Ma che un bravo terapeuta non debba farsi condizionare dal proprio modo di pensare e dai propri valori nel corso di una terapia, così come di un colloquio psicologico.
    Cioè, mi va' bene se esprimo approvazione perchè una paziente border mi racconta di essere riuscita a controllare la rabbia mentre di solito, quando le saltavano i 5 minuti, sfasciava tutto quello che le capitava a tiro.
    O disapprovazione se mi porta giustificazioni stupide ad una scelta dettata da ben altre motivazioni (se mi rendo conto che può coglierla).
    Non mi va' bene se mi scappa una smorfia di disgusto quando un paziente pedofilo mi racconta di come ha circuito un bambino. Per quello c'è l'opinione pubblica.
    Io sono lì per promuovere un cambiamento nel senso del benessere del mio paziente, non oper giudicare. Se non me la sento di farlo, perchè non lo vedo neanche degno di essere considerato uomo, rinuncio.
    Come dicevo in un intervento precedente, dal punto di vista razionale siamo tutti d'accordo. Il problema è che sono presenti anche altri livelli, nei quali la comunicazione di elementi soggettivi del terapeuta è assolutamente presente e non può essere "controllata" e non "intralciare", ma diviene anch'essa risorsa. Molti contributi della psicoanalisi contemporanea vanno in questa direzione (Gill, Hoffmann, Bollas, Mitchell, Aron, Renik, solo per citarne alcuni), e il concetto di identificazione proiettiva ha assunto sempre più la sfumatura di una comunicazione inconscia tra soggetti.
    Certo che non siamo lì per giudicare il paziente, ma questo non vuol dire che non proviamo qualcosa di nostra nell'incontro con lui. è proprio su questo che possiamo basare il lavoro.
    gieko

  5. #50
    Partecipante Leggendario L'avatar di gieko
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    Originariamente postato da Santiago
    Se gli analisti non hanno una tecnica adeguata per i fobici dovrebbero ripensare alla loro teoria dell'organizzazione fobico, nello specifico alla loro teoria del setting per questa organizzazione.
    Renderlo flessibile in funzione delle coordinate che ci è dato sapere dall'organizzazione personale del paziente considerando ovviamente le sue specificità
    Un setting "rigido", per di più promosso da chi "cura" la rigidità strutturale elevandolo a criterio demarcatore tra normalità e patologia (come emerge da un tuo post precedente) è quantomeno paradossale proprio al livello epistemologico a cui mi rimandi.
    Mi sembra corretto quello che dici, non penso che il setting debba essere "rigido" ma ragionato, rispetto al numero di sedute e altri criteri. In assoluto non escluderei la possibilità di lavorare 4 sedute a settimana o 1 con un paziente fobico, dipenderebbe...


    Originariamente postato da Santiago
    Un'ultima cosa riguardo ad alcuni assunti di altri orientamenti teorici: tu QUI dissenti e io QUI e ALTROVE non rispetto.
    Se hai un paziente che arriva da una precedente terapia in cui riscontri errori madonnali, in cuor tuo o in conversazione con altri colleghi non ti ti limiti a dissentire: saresti un pò freddino...
    Più che altro sono molto abituato a considerare un "errore madornale" come "un passaggio critico e difficile nel quale potrei cadere anche io", e quindi, nel caso di terapeuti di altro orientamento, penso che la teoria e la metodologia di riferimento, così come l'impasse relazionale con quel tal paziente, non li abbia magari aiutati. Ecco perchè sposo una particolare teoria, perchè mi sembra che colga più di altre, però ci sto attento. Cmq sono anche differenze personali...
    gieko

  6. #51
    Postatore Compulsivo L'avatar di riversky
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    Re: Re: Re: Re: Re: omosessualità: i terapeuti

    Originariamente postato da gieko
    Certo che non siamo lì per giudicare il paziente, ma questo non vuol dire che non proviamo qualcosa di nostra nell'incontro con lui. è proprio su questo che possiamo basare il lavoro.
    Gieko, sono assolutamente d'accordo con questa frase.
    Quello che volevo dire è che non posso reputare come corretta la decisione di rendere paretecipe della propria vita privata il paziente. Almeno, è quello che mi è stato insegnato con la teoria. Non dico di essere un tocco di ferro, tuttavia, da quanto ho capito, il paziente va' comunque considerato tale, e non un amico, cui rivelare i nostri struggimenti. Che poi si crei un legame, quasi affettivo, sono d'accordo con te, fornisce spunto per l'interpretazione su cui si basa la terapia.
    continuo dopo
    "The road of excess leads to the palace of Wisdom..." W. Blake



    Il mio primo blog!!!

  7. #52
    Partecipante Esperto L'avatar di Santiago
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    Originariamente postato da gieko
    Mi sembra corretto quello che dici, non penso che il setting debba essere "rigido" ma ragionato, rispetto al numero di sedute e altri criteri. In assoluto non escluderei la possibilità di lavorare 4 sedute a settimana o 1 con un paziente fobico, dipenderebbe...

    Credo che la ragione principale perchè non si debba vedere un paziente per 3 o 4 volte la settimana sia questo:

    "Il sistema terapeutico deve dissolversi quanto prima per evitare che la terapia diventi iatrogena, sostituendosi alle interazioni reali o alterandole con la sua presenza: il processo terapeutico prolungato e molto investito finisce inevitabilmente per andare oltre al suo ruolo metodologico sostituendosi alle interazioni reali, col rischio di stabilizzare la malattia o il problema che sono l’argomento della conversazione terapeutica o di demotivare il paziente nella costruzione di nuove relazioni."
    "Soltanto i pesci non sanno che è acqua quella in cui nuotano, così gli uomini sono incapaci di vedere i sistemi di relazione che li sostengono" L. Hoffmann

  8. #53
    ninfaverde
    Ospite non registrato
    Sono perfettamente d'accordo e per riuscirvi ci vogliono degli obiettivi ed uno schema logico in grado di guidare la terapia, controllare quando ci si discosta dal perseguimento di questi obiettivi e percorrere la strada decisa insieme.
    Trovo che spesso e volentieri il terapeuta abbia bisogno lui stesso del paziente, ecco che allora le terapie diventano interminabili, confuse, regressive e fortemente iatrogene, producendo una sorta di malattia nel terapeuta stesso.

  9. #54
    Partecipante Leggendario L'avatar di gieko
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    Originariamente postato da Santiago
    Credo che la ragione principale perchè non si debba vedere un paziente per 3 o 4 volte la settimana sia questo:

    "Il sistema terapeutico deve dissolversi quanto prima per evitare che la terapia diventi iatrogena, sostituendosi alle interazioni reali o alterandole con la sua presenza: il processo terapeutico prolungato e molto investito finisce inevitabilmente per andare oltre al suo ruolo metodologico sostituendosi alle interazioni reali, col rischio di stabilizzare la malattia o il problema che sono l’argomento della conversazione terapeutica o di demotivare il paziente nella costruzione di nuove relazioni."
    Mi pare una considerazione generale di buon senso con la quale difficilmente si può essere in disaccordo.

    Ti rispondo inizialmente con una battuta: se pensiamo che ci sia un troppo, dobbiamo pensare che ci possa essere anche un troppo poco...

    Non sono tra quelli che considere una psicoanalisi tale solo se è condotta a 4 sedute a settimana, non credo che siano il numero di sedute o altri fattori del setting a determinare il fatto che si faccia psicoanalisi, ma che conseguenza del metodo psicoanalitico siano alcune impostazioni del setting, all'interno del quale hanno un loro motivo e devono sempre essere pensate (per dire: non si va in automatico su 4 sedute alla settimana, nè su 1 sola, la decisione la si prende in merito al caso). Penso che il disaccordo di alcuni elementi del setting psicoanalitico sia legato semplicemente al fatto che si lavora con un orientamento diverso. Benissimo, posso capire che non lavorando specificamente sul transfert sembri inutile fare più sedute a settimana (e si finisca per vedere il setting come qualcosa che crea dipendenza...). Immagino che nel metodo della terapia sistemica non si interpreti il transfert, coerentemente con una teoria differente.
    Quindi Santiago, dal mio punto di vista il "sistema terapeutico" potrebbe anche necessitare di più sedute per non essere iatrogeno, seguendo la precedente affermazione da un punto di vista psicoanalitico. Quando l'analisi finisce, nel tempo giusto, il sistema si dissolve senza essere iatrogeno.

    A ninfaverde poi dico: un'analisi, solo perchè è lunga è per forza iatrogena? Può capitare, ma non mi risulta che, per principio, le analisi siano lunghe allo scopo di creare patologia. Se ciò avviene c'è qualcosa che non ha funzionato nell'applicazione del metodo, cosa che credo possa capitare in tutti gli orientamenti.
    Un'altra cosa: ti ho scritto delle differenze tra teoria, metodo, tecnica. Da queste conseguono obbiettivi e "schemi logici" (preferisco il termine "idea del processo terapeutico") ben definiti. Se così non è, di nuovo, non è la teoria ad essere sbagliata per forza, ma può essere il terapeuta a non aver colto elementi importanti.

    Saluti
    gieko

  10. #55
    ninfaverde
    Ospite non registrato
    Le analisi sono molto lunghe e arrivano ad anni quando non sono riuscite ad essere risolutive per l'obiettivo prestabilito. Stento a credere che ci vogliano 10 anni perchè un paziente e il suo terapeuta riescano ad arrivare alla meta. Secondo me anzi, lungo i 10 anni la meta se la sono proprio dimenticata..

  11. #56
    Partecipante Leggendario L'avatar di gieko
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    è una tua opinione, ti chiederei di argomentarla in maniera più solida, se no si rimane nel campo dell'esperienziale e dell'opinabile.
    Ci sono alcune analisi che durano molto per un motivo tecnico ben preciso: si ha a che fare con un livello di rigidità talmente elevato che i tempi sono necessariamente dilatati. D'altronde se un paziente rimane così a lungo vuol dire che, almeno a livello inconscio, sente che c'è un movimento, un processo, per quanto lento esso sia. Le analisi che non conducono a niente si interrompono, non vengono portate a conclusione.
    gieko

  12. #57
    ninfaverde
    Ospite non registrato
    "Le analisi che non conducono a niente si interrompono, non vengono portate a conclusione."

    Anche questa è una tua opinione, da argomentare in modo pi solido.. Il punto è che queste analisi interrotte possono durare 10 anni.. 10 anni per il senso comune dovrebbe rappresentare un percorso volto a conclusione.. Ma sei sicuro che è così?

  13. #58
    Partecipante Super Figo L'avatar di ikaro78
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    Credo che la ragione principale perchè non si debba vedere un paziente per 3 o 4 volte la settimana sia questo:

    "Il sistema terapeutico deve dissolversi quanto prima per evitare che la terapia diventi iatrogena, sostituendosi alle interazioni reali o alterandole con la sua presenza: il processo terapeutico prolungato e molto investito finisce inevitabilmente per andare oltre al suo ruolo metodologico sostituendosi alle interazioni reali, col rischio di stabilizzare la malattia o il problema che sono l’argomento della conversazione terapeutica o di demotivare il paziente nella costruzione di nuove relazioni."
    Forse i motivi che spingono 1 persona ad intraprendere una analisi personale ed a portarla avanti per diversi anni con più sedute settimanali non sono gli stessi che spingono 1 persona ad iniziare 1 picoterapia. (Non so di chi sia questa citazione che ci riporta Santiago, ma a me sembra totalmente fuorviante, almeno se parliamo di analisi).

    Saluti,
    ikaro

  14. #59
    Partecipante Esperto L'avatar di Santiago
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    Originariamente postato da gieko
    Mi pare una considerazione generale di buon senso con la quale difficilmente si può essere in disaccordo.

    Ti rispondo inizialmente con una battuta: se pensiamo che ci sia un troppo, dobbiamo pensare che ci possa essere anche un troppo poco...

    Non sono tra quelli che considere una psicoanalisi tale solo se è condotta a 4 sedute a settimana, non credo che siano il numero di sedute o altri fattori del setting a determinare il fatto che si faccia psicoanalisi, ma che conseguenza del metodo psicoanalitico siano alcune impostazioni del setting, all'interno del quale hanno un loro motivo e devono sempre essere pensate (per dire: non si va in automatico su 4 sedute alla settimana, nè su 1 sola, la decisione la si prende in merito al caso). Penso che il disaccordo di alcuni elementi del setting psicoanalitico sia legato semplicemente al fatto che si lavora con un orientamento diverso. Benissimo, posso capire che non lavorando specificamente sul transfert sembri inutile fare più sedute a settimana (e si finisca per vedere il setting come qualcosa che crea dipendenza...). Immagino che nel metodo della terapia sistemica non si interpreti il transfert, coerentemente con una teoria differente.
    Quindi Santiago, dal mio punto di vista il "sistema terapeutico" potrebbe anche necessitare di più sedute per non essere iatrogeno, seguendo la precedente affermazione da un punto di vista psicoanalitico. Quando l'analisi finisce, nel tempo giusto, il sistema si dissolve senza essere iatrogeno.

    A ninfaverde poi dico: un'analisi, solo perchè è lunga è per forza iatrogena? Può capitare, ma non mi risulta che, per principio, le analisi siano lunghe allo scopo di creare patologia.
    Quella riportata gieko non è una considerazione generale, come sai, ma un prassi terapeutica chiaramente saldata ad un teoria che "distingue" l'orientamento sistemico e in linea di massimo non è accolta dall'orientamento psicoanalitico.
    In superficie mi sovviene il solito quesito: quanto il tuo orientamento è eretico rispetto alla psicoanalisi?
    Condivido pienamente quanto riportato da ninfaverde: c'è poco da argomentare.
    La teoria e il setting psicoanlitico richiedono tempi lunghi e frequenze ravvicinate dato lo scopo ultimo che si prefiggono: rendere conscio l'inconscio, rendere meno rigido ciò che è definito tale.
    Per questo il numero di sedute e il loro incalzare in tempi ravvicinati sono un elemento fondante, forse non necessario a determinare una psicoanalisi, sicuramente a caraterizzarla e quindi ad individuarla, in ultima analisi a "riconoscerla" fra le alternative.

    Un altro punto è di estremo interesse (specie perchè finalmente arriviamo alle nostre differenze):
    Gli orientamenti sistemici più lontani dalla psicoanalisi non è che "non lavorano specificatamente sul transfert", ma semplicemente non lavorano sul transfert.
    In accordo con il costruttivismo esso è niente di più che un effetto di un particolare setting (mentale del terapeuta, più che effettivo): quindi una realtà possibile, non necessaria a quello che chiami un "mutamento strutturale", persino iatrogena.
    Il concetto di transfert, forse ultimo reduce psicoanalitico del positivismo, è una costruzione sociale che esiste nel momento in cui chi ha più potere nella relazione (il terapeuta) vuole farlo esistere: esiste quindi se la relazione lo permette.
    Per questo il pezzo citato appare a mio parere una delle più grosse critiche alla psicoanalisi che mina alle sue fondamenta.
    I terapeuti sistemici, sostanzialmente, meno onnipotentemente degli analisti, non si pongono come sostituti genitoriali, perchè la loro posizione è decentrata rispetto al progetto di cambiamento che intraprendono con il cliente.
    Ultima modifica di Santiago : 21-07-2007 alle ore 16.54.47
    "Soltanto i pesci non sanno che è acqua quella in cui nuotano, così gli uomini sono incapaci di vedere i sistemi di relazione che li sostengono" L. Hoffmann

  15. #60
    Partecipante Leggendario L'avatar di gieko
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    Originariamente postato da ninfaverde
    "Le analisi che non conducono a niente si interrompono, non vengono portate a conclusione."

    Anche questa è una tua opinione, da argomentare in modo pi solido.. Il punto è che queste analisi interrotte possono durare 10 anni.. 10 anni per il senso comune dovrebbe rappresentare un percorso volto a conclusione.. Ma sei sicuro che è così?
    No, la mia non è una opinione, è una lettura teorico-clinica. L'interruzione avviene a causa di "fenomeni di campo" (W. e M. Baranger, La situazione psicoanalitica come campo bipersonale), ovvero in base ai cosidetti "bastioni", cioè situazioni di intensa simbiosi inconscia tra paziente ed analista che non vengono interpretati e che portano all'impasse. Ciò fa sì che la coppia analitica perda la sua funzionalità e si "sciolga", portando all'interruzione dell'analisi. L'interruzione (ed è per questo che è differente dalla conclusione) avviene qualora la diade diventa statica e il processo terapeutico si blocca. Se l'analisi è andata avanti per 10 anni, vorrà dire che per quel periodo di tempo c'è stato un processo, quindi non si è buttato via tempo. Se dopo quel periodo venisse interrotta, significa che analista e paziente sono giunti ad un "bastione" inespugnabile.
    Ultima modifica di gieko : 21-07-2007 alle ore 16.34.45
    gieko

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