Scuola e Università
PASSAGGIO AL BUIO
di Bruno Dente 23.06.2008
Con la manovra finanziaria appena varata si dà alle università la possibilità di trasformarsi in fondazioni di diritto privato con una semplice delibera del senato accademico assunta a maggioranza assoluta. Si tratta di una riforma potenzialmente molto importante, che rompe l'insensata uniformità del nostro sistema universitario e consente il dispiegarsi di una maggiore autonomia. Ma servono chiarimenti su punti fondamentali come le condizioni minime per il passaggio, i più ampi gradi di libertà così garantiti e il mantenimento dei livelli di finanziamento.
La manovra finanziaria decisa dal Consiglio dei ministri introduce la facoltà delle università (pubbliche o libere) di trasformarsi in fondazioni di diritto privato con una semplice delibera del senato accademico assunta a maggioranza assoluta.
Ho avanzato, in epoca non sospetta (1), una proposta del tutto analoga a quella contenuta nel decreto legge governativo, dunque il giudizio sull’innovazione non può che essere positivo: qualsiasi ampliamento dell’autonomia universitaria è senza dubbio un obiettivo condivisibile.
Ciò detto, il testo che è informalmente circolato appare davvero un po’ troppo scarno perché sia lecito attendersi conseguenze positive automatiche dalla sua applicazione.
LA FONDAZIONE È PER TUTTI?
In primo luogo: qualsiasi università può optare per il regime privatistico? Oppure ciò è condizionato alla sussistenza di parametri oggettivi, se non altro di solidità di bilancio, ma forse anche di qualità della didattica e della ricerca? Esistono come è noto atenei che spendono più del limite di legge (il 90 per cento del Fondo di finanziamento) per il pagamento del proprio personale: anch’essi potranno “privatizzarsi”? Francamente, non sembra una gran bella idea.
Chi scrive aveva a suo tempo immaginato di utilizzare la possibilità di trasformazione come stimolo al sistema universitario italiano per un miglioramento complessivo della performance, ponendo requisiti abbastanza severi per l’accesso al nuovo regime. Ma anche se non si vuol fare ciò, bisognerebbe quanto meno definire le condizioni minime per il passaggio. Alcuni esempi recenti di università private che sono state statalizzate per coprire i dissesti finanziari indurrebbero a maggiore prudenza.
In secondo luogo: quali sono i maggiori gradi di libertà garantiti agli atenei/fondazioni? Salvo la possibilità di derogare alle norme dell’ordinamento contabile pubblico (ma i regolamenti vanno approvati dai ministeri dell’Istruzione e dell’Economia), il testo di legge non dice molto. Sembrerebbe – ma il condizionale è d’obbligo – che, come è del tutto ragionevole, la trasformazione comporti la piena “contrattualizzazione” del personale docente, con conseguente disapplicazione dell’attuale stato giuridico. Èpossibile farlo senza concedere ai docenti il diritto di opzione, in una situazione nella quale coloro che restano in atenei non privatizzati conservano lo status pubblicistico?
Ci saranno, immaginiamo, anche importanti riflessi sulla “governance” nel senso di rimuovere i vincoli alla autonomia statutaria (ad esempio: la rappresentanza obbligatoria delle componenti nel consiglio di amministrazione). Ma questa autonomia si estenderà anche alla possibilità di superare l’attuale modello istituzionale per quanto riguarda, ad esempio, la divisione in facoltà e dipartimenti?
Comunque le università sono soggette ad altre e non meno importanti restrizioni. (2).Che ne sarà di questi vincoli? Che alcuni siano destinati a restare (i “requisiti minimi” per i corsi di studio, ad esempio), non c’è dubbio, ma certamente bisognerebbe saperne di più.
LA SORTE DEI FINANZIAMENTI
Last but not least: la bozza circolata afferma che “resta fermo il sistema di finanziamento pubblico”. Sinceramente è un po’ poco. L’ammontare del finanziamento delle università è determinato annualmente in sede di bilancio dello Stato ed è ripartito con decreto ministeriale.
A parte ogni altra considerazione, i partner pubblici e privati prima di entrare nella fondazione vorranno certamente qualche garanzia sul fatto che il finanziamento statale resti almeno costante per un periodo di tempo abbastanza lungo. Qualche rassicurazione sulla permanenza degli attuali livelli di finanziamento sembra assolutamente necessaria per incentivare le trasformazioni.
Si tratta di una riforma potenzialmente molto importante, che rompe l’insensata uniformità del nostro sistema universitario e consente il dispiegarsi di una maggiore autonomia. Tuttavia, in assenza di indicazioni sui punti sollevati, e su altri che certamente sono sfuggiti, è difficile essere entusiasti.
In conclusione, e in attesa di saperne di più: in un paese normale una trasformazione di questo genere sarebbe stata preceduta da un ampio dibattito, magari da un libro verde e da un libro bianco, e sottoposta a estesa consultazione. Da noi è stata decisa, a quanto pare, in 8 minuti e mezzo assieme a moltissime altre, non meno rilevanti, misure.
Ma forse il ministro Tremonti pensa che non siamo in un paese normale e che l’unico modo di introdurre riforme radicali è quello di adottare una tattica di blitzkrieg (e una norma di questo tipo all’interno di un decreto legge è certamente un caso esemplare) per evitare che il dibattito diventi infinito e paralizzante. Può darsi che abbia ragione, ma certo non è una gran consolazione.
Post Scriptum
Questo intervento era già stato inviato quando è circolato un nuovo testo dell’articolo in questione nel quale alla già ricordata previsione che “resta fermo il sistema di finanziamento pubblico” è stata aggiunta la seguente specificazione “a tal fine, costituisce elemento di valutazione, a fini perequativi [corsivo nostro], l’entità dei finanziamenti privati di ogni fondazione”. Il che significa se intendiamo bene, che quanto è maggiore l’apporto privato tanto minore sarà il contributo pubblico. Il che, ovviamente, appare previsione fatta apposta per disincentivare la trasformazione. Perché?
(1) “Una nuova strategia per l’università”, in il Mulino, maggio-giugno 1997.
(2) Un esempio minore: i limiti introdotti dal ministro Mussi alla possibilità di svolgere corsi di studio in località diverse da quella dell’ateneo.