Mi spiego meglio, io non credo che prendere un caffé con un paziente faccia bene o faccia male ad una terapia, così come non credo che salutare un paziente fuori dalla terapia come chiunque di noi saluta i suoi amici, i conoscenti, i clienti, sia o possa essere un problema ... capita che ci si ritrovi nello stesso bar, nello stesso cinema, nello stesso supermercato ... siamo (in genere) persone beneducate, e io personalmente non vedo perché con un paziente fuori dalla terapia dovrei comportarmi diversamente da ciò che mi suggerisce la mia educazione e il mio carattere.
I problemi se ci si dovesse incontrare fuori sono problemi artificiali in gran parte, dovuti alla presunta asetticità e neutralità dell’analista, che creano un clima estremamente artificiale nella terapia e soprattutto fuori.
Direi quasi che il paziente incontrando il suo analista fuori dal contesto terapeutico è preoccupato che questo fatto possa essere un problema per il suo analista, e possa compromettere l’analisi ... un’analisi, beninteso, dove l’analista pensa di essere un bisturi sterile e non un compagno di viaggio.
Se poi ci dovessero essere problemi da parte del paziente indipendentemente dall’impostazione dell’analisi (e i disturbi schizoidei e schizotmici e tutto lo spettro schizofrenico sono li a testimoniare quanto per certe persone possa essere difficile la vicinanza, il contatto, anche il disturbo paranoide non è molto incline alla vicinanza perché teme l’inganno) ci si sta un po’ attenti ... certo non andrei mai ad offrire un caffé ad un paziente di questo tipo, diventerebbe sospettoso o sarebbe in estremo imbarazzo. Starei attento al momento analitico ... all’opportunità se in quel momento preciso possa essere adeguato fare un certo passo o non farlo.
Alcuni analisti tagliano corto e ti dicono: “No, mai!” e hanno le loro buone ragioni, io ti dico: “Valuto caso per caso il come e il cosa”, ma questa valutazione non mi impedisce di essere come sono, non mi crea più disagio del solito.
Poi, dal momento che stiamo facendo una terapia e non siamo né amici, né parenti, né fidanzati, né semplici conoscenti, questo avvenimento rientra nell’analisi terapeutica ... è questo in fondo il mio lavoro, analizzare cosa accade nella relazione.
Andare a sciare insieme, o magari una partita a tennis? No, non mi è mai capitato, evito accuratamente di mischiare gli ambiti, se uno è in terapia con me è in terapia, non possiamo sciare insieme o giocare a tennis ... non avrebbe molto senso dal mio punto di vista, e potrebbe essere controproducente. Un dato è il fatto che ci si incontri per strada, in un bar da qualche parte, un’altro è programmare insieme una gara sportiva fuori dall’analisi, non ne vedo la valenza terapeutica, non credo che possa esserci utile, mi pare di mischiare insieme cose incompatibili tra loro.
La terapia necessita di un setting e difficilmente una sciata può essere fatta rientrare in quel setting ... difficilmente potremmo concludere che un analista e un paziente che giocano a tennis stanno facendo terapia ... perché per me l’elemento terapeutico è cogliersi nella relazione, in quell’atto di presenza a se stesso e di riflessività che un soggetto si può dare, non giocare a tennis o sciare.
Però, e c’è sempre un però in ogni cosa e, come dice anche Anna Freud, non possiamo mettere limiti alla creatività della tecnica, quindi se io valutassi (in scienza e coscienza) che con un certo paziente posso raggiungere il mio obiettivo attraverso una sciata o una partita a tennis ... ebbene, se non fosse che non so sciare (ma potrei pur sempre prendere delle lezioni) andrei a sciare con quel paziente.
Metterei il tassametro sugli sci? Certo, per me continua ad essere un lavoro ... anzi, aggiungerei la trasferta e metterei pure in conto un cordiale per il freddo
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Un buon fine settimana ad entrambe.